Corpus Hominis












 

 

CORPUS HOMINIS

 

«È privilegio e opera dell’apprendista della creazione pervenire con l’immaginazione all’inimmaginabile e con la parola all’ineffabile».
Tutti noi, in ogni nostra opera, partecipiamo alla creazione (e in questo risiede evidentemente la costante responsabilità della condizione umana), ma la considerazione appena ripresa da La risurrezione della rosa, una raccolta di mirabili scritti di Wendell Berry, richiama in maniera opportuna come, nell’impiego dei mezzi che nel tempo presente sono ritenuti più propri delle arti, l’uomo disponga di un privilegio particolare, risalendo canali attraverso i quali può giungere a realizzazioni che attingono a dimensioni solitamente trascurate o addirittura inconosciute dai più. Poi, come a rimettere in questione proprio le determinazioni e attese correnti rispetto alle arti, gli artisti contemporanei più devoti nel loro apprendistato della creazione paiono essere quelli che rigettano le distinzioni predominanti tra modalità di ricerca della conoscenza, muovendosi in un continuo di sensibilità lungo il quale gli stimoli alla propria immaginazione, le aperture sull’ineffabile, vengono trovate anche soffermandosi su esperimenti antichi, guardando oltre il corso principale di ciò che viene denominato cultura.
Il caso di Valerio Giacone, e segnatamente l’albero della vita alla base del suo Corpus Hominis, sono esemplari di quanto qui avvicinato, nel tema prescelto così come nelle sue ispirazioni. La fascinazione di Valerio per gli alberi era evidente in maniera drammatica nella sua pittura, più di recente si è sviluppata nei sottili equilibri di composizioni realizzati con vecchi libri ed elementi naturali (cera, rami), nella presente occasione perviene a una combinazione ambiziosa e al contempo ponderata di fattori sia materiali che spirituali. Quanto alle ispirazioni, vale segnalare al lettore come il richiamo alla mistica ebraica, e in particolare alle sue proiezioni dell’Infinito lungo il diagramma simbolico dell’albero sefirotico, sia il primo e più dichiarato dei principi che reggono l’opera in discorso. Si tratta di un richiamo rilevante per le profondità di conoscenze che attiva: esso, inoltre, significativamente accomuna Giacone a uno dei suoi principali riferimenti artistici, Anselm Kiefer, il quale, richiesto in una recente intervista di esplicitare i rimandi alle sephirot presenti in una torre dei suoi celebrati Sette palazzi celesti, ha rilasciato una considerazione che ci s’immagina Valerio possa sottoscrivere appieno: «io credo che nei materiali, nella materia ci sia nascosto lo spirito, e l’artista, cioè ogni essere umano, ma l’artista in modo particolare, ha la capacità di evocare questo spirito, questo spirito racchiuso nella materia».
Al fondo di un’opera-azione come quella del Corpus Hominis, in effetti, si rinviene l’approvazione convinta di un’unità tra anima e corpo tale da determinare un’armonia vivente, un «corpo animato» di cui, nel gioco meraviglioso della creazione e lungo la perenne tensione tra macro- e microcosmo che ne regge le singole manifestazioni, l’uomo è naturale componente. La circostanza che un simile strumento artistico trovi la propria collocazione nel corpo di una vecchia chiesa, infine, pare l’opportuno coronamento della devozione mostrata dal suo artefice, così riconnettendosi a quell’accumulo di spirito, proprio dei luoghi di culto, che continua a caratterizzare questi anche dopo il loro abbandono materiale. Nelle emanazioni che saranno così attivate, lungo le rivelazioni e i conseguenti compimenti di chi a questa manifestazione si sarà avvicinato, proseguirà, dunque, il gioco meraviglioso di cui si è detto, dove ogni ente è insieme risultante e parte attiva.

Luca Arnaudo

 


 

SONAR, Corriere Adriatico, 19 agosto 2016

Valerio Giacone e la sua canapa.

L’artista Valerio Giacone in residenza creativa su una grande installazione di fibre e materiali naturali da visitare in occasione del Festival “Nottenera”.

Nell’operosa Serra De’ Conti, comune marchigiano dedito alla manifattura, all’agricoltura di qualità e alla cultura, dopo aver rilanciato il brand della cicerchia si lavora per recuperare la filiera della canapa, fibra naturale dalle notevoli potenzialità nel tessile, nell’alimentazione, nella cosmesi e nella coibentazione in edilizia. Un prodotto a km 0, molto diffuso fino agli anni ’50 del secolo scorso, quando ancora la coltivazione agricola della canapa era molto comune nelle zone mediterranee, e l’Italia era uno dei principali produttori mondiali della fibra e dell’olio largamente usati per corde, tessuti, energia, mangimi.
Mentre cresce la domanda mondiale di fibre naturali, a Serra De’ Conti operano da tempo un’azienda che ha lanciato il materasso in fibra di canapa supertraspirante, agricoltori “bio” attivi nel recupero della filiera, un’amministrazione comunale impegnata nello sviluppo di nuovi indirizzi in agricoltura e nel rilancio dell’identità agricola del comprensorio, in attuazione degli orientamenti comunitari 2014-2020.
Non è un caso dunque se in questo ridente borgo medievale stia lavorando da alcune settimane, appunto su fibre di canapa e altri materiali naturali, un artista visivo dall’ampia attività espositiva, in Italia e all’estero, quale il romano Valerio Giacone. L’artista è qui da fine luglio, per una residenza creativa finalizzata alla realizzazione di una installazione site-specific nella chiesa intitolata alla Santa Croce, un piccolo scrigno d’arte di fine ‘500, oggi sconsacrato, e che sarà possibile visitare per tutta la notte del 20 agosto prossimo tra i 36 eventi del decennale del Festival Nottenera. L’associazione Nottenera, che organizza la manifestazione insieme al Comune di Serra De’ Conti, e la direttrice artistica Sabrina Maggiori, hanno invitato Valerio Giacone per una residenza creativa intorno al tema del Festival 2016, “Alberi”, e che trasformerà la Chiesa di Santa Croce in un “Corpus Hominis” – questo il nome dell’installazione – da “abitare” per tutta la “Nottenera”.
Libri, cera d’api, fibre di canapa, terra, disegnano nel lavoro di Giacone un labirinto che si snoda in dieci tappe, un diagramma con i dieci punti (sephirot) dell’Albero della Vita di cui parla la tradizione della Qabbalah e che riproduce la struttura interna del corpo umano; attraverso l’opera, l’artista conduce il pubblico nella sua poetica ed invita ciascuno ad entrare in connessione con la propria spiritualità e con la sacralità dell’essere umano.
“Per questa installazione – spiega l’artista – ci saranno colori e materiali organici quali cera d’api che è oramai rara e preziosa a causa della moria delle api. Quanto alla canapa è un materiale che apre tutta una serie di connessioni sociali e politiche; la produzione in Italia, dopo essere stata bandita, è da poco stata riammessa e si sta creando una nuova filiera di produzione, mentre noi continuiamo ad importarla dalla Cina e dalla Romania, senza un reale controllo di qualità e in contrasto con quello che avviene, ad esempio, nelle Marche, dove ci sono produttori virtuosi e seri. Fare questo lavoro proprio qui è il mio modo di comunicare a queste persone una vicinanza e di veicolare la conoscenza di una situazione attraverso l’arte.

Stefano Fabrizi

2018-03-22 | Posted in SITE SPECIFICComments Closed