Sic vos non vobis








 

 

 

Un’idea di natura. Note sul rapporto tra l’arte e il giardino

di Michele Gentili

Impervio è il processo che porta alla definizione delle cose più “grandi” di questo pianeta e da sempre pensatori e intellettuali hanno dato la caccia all’enunciato più consono, al termine che meglio donasse forma alle proprie idee, ad una proposta che superasse precedenti, altrui, formulazioni. Come per l’esistenza, la morte, Dio, l’anima, anche per definire la natura fiumi di inchiostro sono stati gettati sulla carta, cercando di coglierne l’essenza. Le idee di natura sono cambiate con le epoche che si sono succedute e la tradizione filosofica ci consegna un archivio di speculazioni che nel tempo hanno fortemente condizionato il nostro sentire e che oggi ci portano a faticare un po’ nel tentativo di tessere un rapporto più puro, più diretto, con ciò che ci circonda. Si vuole qui considerare il giardino come una delle possibili forme della natura con cui l’uomo – e quindi l’artista – può entrare in contatto nella propria vita. Considerato che la tradizione occidentale ha sempre puntato ad estromettere l’uomo dalla sfera del naturale, postulando la natura come “altro” da sé, il giardino appare come una delle ultime tappe di un processo di “culturalizzazione” della natura, di conquista – e della relativa trasformazione – del dato naturale da parte dell’uomo.
“[Il giardino è un] appezzamento di terreno organizzato artificialmente con l’impiego e la disciplina di elementi naturali (alberi, fiori, specchi d’acqua, ecc.). È un prodotto delle civiltà urbane (anche quando, fisicamente, esso sorga in campagna) ed è generalmente svincolato da un’utilizzazione a fini agricoli: il suo scopo, in ogni tempo, è stato essenzialmente ricreativo ed estetico”.
Stando a questa definizione, il giardino contraddice apertamente l’idea stessa di una natura autonoma, selvaggia e incontaminata, e risponde maggiormente all’idea di alteram naturam, così come la chiamava Cicerone, l’altra natura, quella trasformata dall’intelletto e dalla forza lavorativa dell’essere umano. Il giardino prende quindi forma da una riscrittura culturale della natura originale e cresce adottando una produttività utilitaristica che, a differenza dell’agricoltura – prima forma di natura culturalizzata – non è volta al sostentamento ma a soddisfare determinate finalità artistiche ed emotive. L’ausilio di canoni estetici porta necessariamente ad una maggiore implicazione del giardino con l’elemento culturale e la sua vocazione all’aspetto visivo lo predispone ad essere un terreno comunicante, aperto ad un fruttuoso dialogo con la pratica artistica.
Seppur raramente studiata nelle accademie e nei corsi di laurea, la storia del giardino è parte integrante della storia dell’arte e con essa ha sempre condiviso orientamenti e soluzioni. Ad ogni epoca storica l’arte dei giardini ha saputo rinnovare le sue forme: dal gusto classico dei giardini all’italiana del nostro Rinascimento alla fastosa scenografia verde che celebrava l’assolutismo francese, dall’hortus conclusus del mondo medievale ai più ibridi e sperimentali modelli degli ultimi decenni. Inoltre, essendo i giardini opere d’arte in perenne mutamento, le arti visive hanno spesso registrato una memoria destinata a perdersi ed hanno così partecipato alla ricostruzione filologica della struttura originaria del giardino. Anche in epoca contemporanea, sono molti gli artisti che decidono di lavorare con il giardino, trovando in esso il giusto modello con cui dare forma alle loro idee ai i loro progetti più intimi, spesso meditati nell’arco di un’intera vita, come gli esempi di Niki de Saint Phalle e il suo Giardino dei Tarocchi (1979-2002) o la Little Sparta (1967-2006) di Ian Hamilton Finlay, giusto per citare due casi molto noti. Nella frequente soluzione del giardino d’artista si palesa la forte volontà di creare un microcosmo immaginario, di dare una lettura “altra” del mondo che ci circonda, plasmandolo a piacimento e sviluppando un proprio progetto concettuale complessivo, in un lavoro in cui l’adesione alle regole estetiche sembra più importante del rispetto dei tempi e della vera “naturalezza” della natura. Il giardino è un luogo dell’anima, perché di un’anima è il riflesso. L’artista, al pari del giardiniere, medita, fa le sue scelte, progetta e costruisce il suo spaccato di mondo, addomesticando la natura ed esaltandola con il cuore e con la mente.
Si direbbe quindi, che c’è davvero poco di naturale in un giardino e penso che nessuna immagine possa davvero rendere merito a quanto affermato sino ad ora meglio del giardino all’inglese. Nato già nel Settecento per poi affermarsi fortemente all’inizio del secolo successivo, dominato dalla sensibilità romantica, il giardino all’inglese pone fine al dominio di forme francesi, basate su rigidi schemi geometrici, preferendo un modello di natura apparentemente più libero. In verità anche questo tipo di giardino rivela una forte artificiosità che sta nel tentativo di sviluppare il sentimento romantico del pittoresco attraverso la modellazione del paesaggio e seguendo i principi di variazione e piacevole disorientamento. Studiando un’accurata compresenza di elementi naturali e particolari interventi umani si creava un paesaggio modellato affinché apparisse naturale, e dove lo spazio e tutti i suoi elementi si potevano scoprire alla vista piacevolmente a poco a poco.
Oltre ai giardini d’artista e agli immaginari che lì trovano realizzazione, la forma estetica del giardino e il modus operandi del giardiniere ritornano spesso, in vesti sempre diverse, nelle soluzioni proposte dagli artisti contemporanei. Scrive Kevin Levin: “[Per essi] l’uso delle essenze vegetali ha tanto a che fare con mali contemporanei – disfunzioni fisiche e politiche, specie estinte o in pericolo di estinzione, mutazioni genetiche o i tossici effetti collaterali dell’industrializzazione – quanto ne ha con l’innocenza perduta.” Infatti, dal primo pionieristico Time Landscape (1965) di Alan Sonfist al Revival Field di Mel Chin (1990-93), dai progetti di Helen Mayer e Newton Harrison alle azioni di Seeds of Change di Maria Thereza Alvez, non è raro trovarsi di fronte ad opere che attraverso la forma estetica del giardino mettono allo scoperto molte delle paure e delle problematiche che segnano la nostra epoca: piante che crescono in condizioni innaturali; frutti ed arbusti dalle forme aliene che si fanno presagio di alterazioni genetiche o contagio nucleare; azioni collettive in cui l’elemento vegetale assume significati e valori simbolici importanti per una comunità; progetti artistici legati alla scienza, atti a risolvere problematiche ecologiche e sociali o anche solo per dare forma estetica a nuovi ritrovati nel campo della ricerca, e così via.
Un’ultima analisi mi porta a considerare il fecondo scambio di riflessioni e sensibilità che da oltre vent’anni sta legando l’arte dei giardini alle più allargate arti visive. Già dall’inizio degli anni Novanta è avvenuto un radicale cambiamento in seno alla stessa disciplina dell’architettura del paesaggio: nuovi stimoli e frontiere alternative si sono radicalmente opposte ai più tradizionali modelli di parchi e giardini ormai decisamente rodati. Contro questi esempi, ormai banalizzati da soluzioni anacronistiche, un nutrito gruppo di professionisti ha in tutto il globo riconsiderato il “giardino come un prodotto di un fare con la natura che può trasformare i luoghi della quotidianità, i vuoti urbani, le aree marginali e abbandonate della città in spazi poetici e narrativi, in cantieri di coltivazione di nuovi valori eco-estetici ed etico-sociali”. Vengono ampliati così i parametri che da decenni caratterizzano gli interventi sul paesaggio e sulle zone verdi, ricercando nell’urbanità, nei centri cittadini e soprattutto nelle periferie, nuove possibilità d’intervento attraverso poetiche della natura capaci di esprimere nuove esigenze dettate dalla contemporaneità: questioni ecologiche e di sostenibilità, questioni legate alla partecipazione sociale e collettiva negli spazi pubblici e soprattutto, proponendo interventi votati alla qualificazione estetica di luoghi ordinari del tessuto urbano e alla legittimazione del “marginale”. Particolarmente significativo è il contributo teorico di Gilles Clément, architetto paesaggista a cui si deve la formulazione di teorie e trattati che hanno fortemente condizionato sia la pratica giardiniera che le arti visive. Attraverso le sue formulazioni Clément ha saputo farsi portavoce di una rinnovata ecologia umanista difendendo la dignità e soprattutto il valore biologico, vitale, della natura degli spazi marginali. Con la teoria del Terzo Paesaggio (2003), egli afferma la presenza di una terza realtà che si differenzia dagli spazi primari, le “riserve”, e da quelli gestiti dall’uomo, ovvero i paesaggi antropizzati. Il giardino teorizzato da Clément è un luogo che sfugge al controllo umano, è l’insieme globale di piccoli frammenti di diversità, è il regno dell’erbaccia che si insinua tra le crepe di un muretto. Nasce così un’idea di “contro-giardino” dove vengono a saltare i processi selettivi della vegetazione e quelli di pianificazione degli spazi, generalmente dettati dalla volontà del giardiniere: nel “contro-giardino” vengono a mancare confini e cancelli, tutto è votato all’improduttività e al rifiuto di progettazione. Certo è che teorie di così dirompente novità e profondo fascino non possono aver lasciato indifferente il mondo dell’arte. Sono infatti molti gli artisti che in tutto il mondo si sono avvicinati, magari più o meno consapevolmente, a questa sensibilità, proponendo riflessioni diverse, volte a coprire una larghissima molteplicità di ambiti: c’è chi vuole “avvicinarsi alla diversità con stupore” portando l’attenzione sul quotidiano che trascuriamo, sulle piccole cose di cui non ci curiamo, oppure c’è chi preferisce scandagliare le profondità del rimosso personale e collettivo dal momento che “il Terzo Paesaggio può essere visto come la parte del nostro spazio di vita affidata all’inconscio”.

La nuova enciclopedia dell’arte Garzanti, 1. ed. , s.v. “giardino”.
K. LEVIN, Guadagnare terreno: arte nella natura e natura come arte, «Lotus», 113, giugno 2002, pp. 27-28.
A. LAMBERTINI, Arte dei giardini urbani, in M. CORRADO, A. LAMBERTINI (a cura di), Atlante delle Nature Urbane. Centouno voci per i paesaggi contemporanei, Compostori, Bologna, 2011, p. 41.
G. CLÈMENT, Manifesto del Terzo Paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005, p. 59.
Ibid., p. 57.

 

 


 

PLURALE NATURALE / Pac

Paesaggio Ambiente Creatività 5° edizione
Parco di Villa Nappi, INTEATRO festival, Polverigi

Valerio Giacone, Monica Pennazzi, CH RO MO e Alisia Cruciani.

Ricordando che il camminare è esercizio quotidiano di conoscenza e incontro, domenica 2 luglio faremo una passeggiata assieme per inaugurare e scoprire le creazioni site specific realizzate e per incontrare gli artisti e la loro sensibilità. Un luogo pubblico, un quieto parco cittadino. Plurali sono le forme di vita che lo abitano. Plurali sono i linguaggi d’arte contemporanei. Quattro giovani artisti per proporre al pubblico la naturale pluralità della sensibilità contemporanea. L’iniziativa P.A.C. Paesaggio Ambiente Creatività, accoglie artisti visivi che interagiscono con il territorio, e la comunità, invitandoli ad abitare, con le loro opere, lo spazio naturale del parco di Villa Nappi. Per questa quinta edizione ne abbiamo affidato la cura alla progettista culturale SABRINA MAGGIORI che ha scelto di focalizzare l’attenzione sulla circoscritta area del giardino antistante la Villa invitando quattro artisti e un giovane curatore, legati al territorio regionale. Grazie al testo appositamente preparato da MICHELE GENTILI scopriremo o riscopriremo che la storia del giardino è parte integrante della storia dell’arte.

PLURALE NATURALE è il titolo di questa edizione che ha il desiderio di proporre ad un pubblico ampio, la naturale pluralità della sensibilità contemporanea, ospitata dentro un contesto che preserva plurali forme di vita naturale. Tutti gli artisti invitati si nutrono della contaminazione tra linguaggi, muovendosi in territori liminari tra le arti visive e l’arte terapia (Valerio Giacone), tra il design e i nuovi media (CH RO MO), tra la moda e le arti plastiche (Monica Pennazzi), tra la fotografia e l’installazione ambientale (Alisia Cruciani).
Per tutti fare ricerca coincide con la capacità di intervenire in contesti differenti, sapendo esercitare un ascolto aperto, plurale per l’appunto. Sarà possibile incontrare gli interventi fatti da VALERIO GIACONE con materiali naturali sui piani orizzontali di alcuni tronchi mozzati. Elementi ritmici stonati dentro tanti slanci verticali che chiedono un ascolto empatico. Si fanno ritmo in dialogo col contesto anche i fili tesi e l’accumulo debordante di sfere di gesso che invadono il sentiero e che nascono per l’autrice MONICA PENNAZZI come elementi di memoria liquida da una fontana. A partire da un vasca di cemento vuota CH RO MO innesta nella disciplinata porzione di territorio elementi selvatici, che riaprono il luogo e l’immaginario all’imprevisto e lo fa usando segni pittorici e buche scavate nel terreno. Trasformare una seduta di pietra in un dispositivo che generi un esercizio meravigliato dello sguardo in cui possano sovrapporsi visione macro e micro, è l’intento che muove l’intervento di ALISIA CRUCIANI.

2018-03-22 | Posted in SITE SPECIFICComments Closed